DIEGO GUADAGNINO, "La Sicilia delle stragi" un’eccezionale occasione di riflessione e di dibattito


L’opera curata da Giuseppe Carlo Marino

Riteniamo La Sicilia delle stragi, il libro scritto a più mani e curato da Giuseppe Carlo Marino, edito dalla Newton Compton Editori, Roma 2007, un’eccezionale occasione di riflessione e di dibattito su democrazia e violenza, due temi che costituiscono i cardini di un secolo e mezzo di storia della Sicilia, dall’indomani dell’Unità d’Italia allo stragismo di Cosa Nostra.

L’opera ha un duplice significato, politico e culturale. Politico, perché ripercorre momenti drammatici della storia del popolo siciliano sui quali la più recente storiografia ci ha insegnato che la verità è una conquista e mai una concessione delle versioni ufficiali, che in tanti casi si sono rivelate dolose operazioni di depistaggio; culturale, perché ci sembra la risposta più motivata e ragionata alla filosofia lampedusiana del cambiare tutto perché nulla cambi, una visione della storia concepita per attribuire al popolo siciliano un atteggiamento fatalista che lascia intravedere la miseria come una sorta di condanna metafisica.
Una coincidenza rivelatrice è l’emergere della strategia stragista nel delicato passaggio dalla dittatura alla democrazia, una coincidenza che dimostra come la mafia, nel suo essere strumentale al potere politico, per la sua sussistenza e per i suoi profitti necessita della democrazia per svuotarla di contenuto e ridurla a simulacro di se stessa. Ciò che vanifica la democrazia non è il rassegnato fatalismo arabo di cui saremmo affetti, ma è l’interferenza del potere mafioso che vive ed agisce in simbiosi con quello politico. Da ciò deriva che, in Sicilia, la democrazia non è mai definitivamente consacrata dalle istituzioni che dovrebbero rappresentarla e garantirla, ma è uno spazio entro cui va costruita e difesa giorno dopo giorno e con un coraggio civile che superi in convinzione e determinazione la temerarietà e la spregiudicatezza con cui il potere mafioso suole operare.
Non è un caso che il gattopardismo, come lettura della storia, sia stato concepito in Sicilia e da un siciliano rappresentante di una classe che, sconfitta dalla propria inettitudine, assisteva allo svanire di secolari privilegi senza vedere nel contempo emergere un mondo di diritti e di giustizia, anzi constatando la comparsa delle “iene” (“Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene”) e accorgendosi di essere soltanto sostituita nella gestione della ricchezza. Il Principe (e intendiamo sia il trisavolo personaggio che il pronipote scrittore) cristallizza la storia in un concetto metafisico in cui un’illusione di movimento nasconde una realtà d’immobilismo (e con lui anche i maggiori scrittori siciliani Verga, De Roberto, Pirandello). La risposta a tale sconsolata e sconsolante visione sta nel capire quali forze, quali energie operino nella realtà siciliana, e operino in maniera tale da indurre a quelle considerazioni errate. Pensiamo che l’opera curata da Giuseppe Carlo Marino, focalizzando le stragi in Sicilia, non solo ci aiuti a individuare i meccanismi intesi a vanificare le lotte per la democrazia e la democrazia stessa, ma dimostri come la Sicilia, lungi dall’essere una terra refrattaria alle idee e ai movimenti di riscatto sociale, sia stata invece costantemente animata da una sensibilità democratica profondamente consapevole e combattiva.
La reazione degli agrari ai decreti Gullo, nell’immediato secondo dopoguerra, è l’esempio più eloquente di come la forza intimidatrice della mafia si sia attivata per la sua disapplicazione, a volte anche collaborata dalle forze dell’ordine che avrebbero dovuto garantirne l’esecuzione.
“In quest’isola – scrive Marino - (pag. 28) è parecchio difficile far dipendere gli eccidi da una fondamentale preoccupazione delle autorità di tutelare l’ordine pubblico, a meno che per “ordine” non s’intenda il sistema dei privilegi e degli interessi dei ceti dominanti : si badi, ceti dominanti siciliani che, in Sicilia, sono soliti affidare la difesa del loro potere sia ad uno Stato reso servizievole e subalterno, sia – il che è più normale e frequente- ad autonome forze sociali locali, in gran parte coincidenti con la mafia.”

La strage di Canicattì

Tra le tante riletture di eventi stragisti proposte dal testo, la strage di Canicattì si contraddistingue per la sua novità nell’ambito della ricerca storiografica, non essendo mai stata prima di adesso oggetto di quell’approfondimento analitico che senz’altro merita. A occuparsene sono Angelo Ficarra con una testimonianza autobiografica e soprattutto Salvatore Vaiana con un saggio di cinquanta pagine (un ampliamento di quanto già scritto nella sua Storia della Camera del lavoro di Canicattì, Agrigento, 2007) che evidenziano come tale eccidio, in cui perirono tre contadini e un carabiniere, matura e si verifica in un clima in cui fermentano tutti gli ingredienti della “pedagogia della paura”. E non è un caso che l’autore sia di Prizzi e non di Canicattì, una città dove finora nessuno, storico o scrittore, aveva avuto il coraggio o semplicemente la voglia di indagare a fondo attraverso carte e testimonianze su quel tragico pomeriggio del 21 dicembre 1947. I canicattinesi, indipendentemente dall’appartenenza politica, non possono che essere grati a Vaiana per avere, col suo studio accurato e documentato, aperto un dibattito su una pagina così dolorosa della loro storia. Altrove, alludendo ai sessant’anni di silenzio passati su di essa, abbiamo parlato di strage dimenticata, ma dobbiamo ammettere che non di strage “dimenticata” si tratta, ma di “strage rimossa”. Dimenticato è ciò che è come se non fosse mai avvenuto, “rimosso” (termine freudiano) è quello che invece continua perversamente a lavorare e a dolorare nell’inconscio. Le varie reazioni suscitate dall’uscita del saggio, animate da una forte carica emotiva, sono la prova di un passato mai sottratto ai fantasmi della disinformazione e dell’irrazionale, ma, proprio per questo, costituiscono un segnale della necessità di discuterne; e l’autore, con lungimirante onestà di storico, conclude il suo studio con un paragrafo giustamente intitolato Per una conclusione provvisoria, implicitamente auspicando una più approfondita indagine anche attraverso la rilettura degli atti del processo avanti la Corte di Assise agrigentina.
Troviamo significativo e inquietante che qualcuno possa parlare di “pene miti” irrogate agli organizzatori della manifestazione sindacale, che diventarono gli imputati principali nel processo che ne seguì. Quello della mitezza delle pene è un apprezzamento che scaturisce dalla mancata conoscenza degli atti giudiziari e dalla inconscia convinzione che proprio loro, quegli imputati, siano stati, comunque, i responsabili della strage del 21 dicembre 1947; ed è grave che ciò si continui a pensare contro lo stesso verdetto della Corte di Assise. Chiaramente, se riferita al reato di strage, la pena di “anni sette di reclusione, mesi cinque e giorni venti arresto e lire duemila di ammenda” non appare mite, ma addirittura impossibilmente lieve, atteso che la sanzione prevista dal codice penale per tale reato è l’ergastolo; ma se riferita ai reati accertati dalla sentenza, allora va considerata una sanzione esemplarmente pesante. E non per sterile volontà di polemica facciamo questa precisazione, ma per stigmatizzare come anche certi “giudizi”, che intendono essere storici, tendano a mutuare acriticamente il diffuso pregiudizio emotivo, lontano dalla stessa realtà processuale.

La sentenza del 15 luglio 1952

Scrive Vaiana che all’indomani della strage “le indagini dei carabinieri furono indirizzate esclusivamente a sinistra”. Questo comportamento degli inquirenti, nella ricerca della verità e nella ricostruzione dell’accaduto, fu determinato dal clima all’epoca imperante che induceva a ritenere gli agrari e la mafia forze d’ordine e, quindi, a vedere come “ordine costituito” il loro sistema d’interessi. Che così sia stato, per pregiudizio politico contro i movimenti della sinistra, oggi non lo deduciamo soltanto dall’ arringa articolata e lucida che l’avvocato Lelio Basso svolse in difesa di Antonino Mannarà, allora segretario della sezione del PCI di Canicattì, ma risulta provato anche dalla diretta testimonianza dell’imputato Gaetano Acquisto.
In periodo successivo alla stesura del saggio di Vaiana, Acquisto ha riferito che nel corso del dibattimento avanti la Corte di Assise, il Presidente Vincenzo Rocchè, chiese al tenente Rodolfo Bongiovanni, comandante della locale tenenza all’epoca dei fatti, visto che in giro si parlava tanto di arsenali esistenti nella sezione del Fronte dell’Uomo Qualunque e nel Circolo di Compagnia, come mai non fossero stati perquisiti. Il militare, a quella domanda, rispose allargando le braccia stando a significare di non avere alcuna spiegazione e che, comunque, così era andata.
La testimonianza di Acquisto trova conferma in quello che scrive l’arciprete Vincenzo Restivo nel suo libro Da Hiroshima all’abbraccio di Assisi, in cui, ricordando la sua personale esperienza di sacerdote chiamato quella notte al capezzale dei feriti all’Ospedale Civile e alla clinica Lino, afferma : “E poteva andar peggio, perché se dall’imbocco del corso Umberto la massa in sciopero si fosse sospinta fino al Circolo di Compagnia, qui sarebbe avvenuta una carneficina. I soci del circolo erano forniti di potenti armi di difesa e non erano affatto disposti a subire imposizioni (pag. 74).” Giova notare che per lo scrittore di destra Angelo La Vecchia, il quale nel suo libro Canicattì: storia tradizioni e varia umanità, parla della stessa circostanza, i soci del circolo diventano apertamente “esponenti della “vecchia mafia” impegnati a respingere l’attacco “a li cappeddra e a San Giuseppi” (ai cappelli e a San Giuseppe, per indicare il già violato Circolo di Compagnia, e il collegio delle Suore) (pag. 127)”. Scrive ancora La Vecchia: “si temeva, tra gli altri, lo scontro con gli amici del gestore del Bar Impero, il signor Aurelio Contrino, in corso Umberto, frequentatissimo dagli aderenti al “Fronte dell’Uomo Qualunque”, mentre esposto a temuti eventuali scontri era proprio il Bar Impero, in corso Umberto frequentatissimo dagli aderenti del Fronte dell’Uomo Qualunque.”
I balconi della sede del Fronte dell’Uomo Qualunque, prospicienti l’imbocco di corso Umberto, si affacciavano sulla folla dei manifestanti, e, quel pomeriggio, ricorda Acquisto, sulle loro ringhiere erano state adagiate delle coperte per nascondere alla vista di chi guardava dalla strada lo spazio retrostante. Perché proprio quel giorno qualcuno era ricorso a tale accorgimento? Chi o cosa nascondevano quelle coperte su quei balconi che erano il posto ideale per sparare dall’alto sulla massa degli scioperanti? Nessuno ha mai dato una risposta a interrogativi così inquietanti e così pertinenti; ma dal racconto di Acquisto apprendiamo un altro particolare di rilievo: sulla porta della salumeria La Greca, ubicata all’angolo tra via Senatore Gangitano e piazza IV Novembre, subito dopo la sparatoria furono notati dei proiettili conficcati in senso obliquo con traiettoria dall’alto verso il basso. Dopo qualche giorno, la porta era stata sostituita.
Nonostante la sussistenza di questi corposi indizi, che avrebbero dovuto essere a pieno titolo oggetto d’indagine, l’istruttoria con incredibile noncuranza li ignorò, approdando al rinvio a giudizio degli organizzatori della manifestazione sindacale con l’infamante accusa di essere i responsabili dell’eccidio. E ciò avvenne in conformità a una logica e a una strategia che abbiamo avuto modo di notare in tutte le stragi con valenza politica verificatesi in Italia. Da Portella delle Ginestre a Piazza Fontana ci siamo trovati sempre al cospetto di una versione ufficiale preconfezionata e di una verità cercata al di fuori dei percorsi giudiziari. All’indomani della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, per gli inquirenti gli autori erano già stati individuati nell’ambito dei movimenti della sinistra extraparlamentare, e fu soltanto la controinchiesta pubblicata col titolo La strage di Stato a far sì che si indagasse e si arrivasse ai responsabili veri che si trovavano in tutt’altri ambienti.
A Canicattì, mancò una controinchiesta che, raccogliendo gli elementi indiziari trascurati, colmasse le lacune e le miopie giudiziarie. Le indagini seguirono la direttrice voluta non già dalla logica imparziale dei dati oggettivi ma dagli auspici della classe politica dominante. La conseguenza fu che l’istruttoria, condotta sul tracciato delle prime indagini, nelle udienze dell’Assise evidenziò i propri vuoti probatori facendo emergere la mancanza di nesso causale tra la condotta degli imputati e l’evento della strage. La maggiore imputazione, che prevedeva appunto quest’ultimo reato, non resse alla verifica dibattimentale e le condanne furono irrogate con riferimento ai soli reati di violenza aggravata a pubblico ufficiale, violenza privata aggravata, radunata sediziosa e porto abusivo d’arma.
Successivamente, lo stesso reato di violenza aggravata a pubblico ufficiale venne derubricato, con sentenza della Corte di Assise di Appello di Palermo in data 17 dicembre 1953, in quello di resistenza a pubblico ufficiale, con conseguente riduzione di pena.
L’iter giudiziario, che va dall’istruttoria alla decisione della Corte palermitana, è eloquente del fallito tentativo di far ricadere la responsabilità dell’eccidio sugli imputati: infatti, si parte da un’imputazione di strage per arrivare a una condanna per resistenza a pubblico ufficiale.
La sentenza della Corte di Assise di Agrigento, smentendo i pregiudizi dell’istruttoria, fuga ogni ombra di dubbio sulla estraneità ai fatti di sangue degli imputati, quando, a pag. 27, afferma:
"Comunque il fatto non fu preventivato, ma si verificò improvvisamente. Infatti nessun elemento vi è in processo atto a far ritenere che un accordo sia intervenuto tra gli scioperanti o anche solo tra i dirigenti per commettere tale delitto. Unica certezza in merito ricavabile dagli atti del processo è che i dirigenti pretendevano l’attuazione integrale dello sciopero (corsivo ns.) e quindi la chiusura di tutti i locali pubblici ed a tal fine per coartare la volontà degli esercenti riottosi radunarono la massa e la trascinarono in piazza".
Tuttavia, la motivazione della sentenza non appare per nulla esente da incongruenze e contraddizioni, dovute ai condizionamenti politici del momento e alla mancanza di prove per affermare la responsabilità del reato di strage. Per cui abbiamo una decisione marcatamente dicotomica, nella quale, da un lato, si afferma che la strage non può essere addebitata agli imputati neanche sotto il profilo del reato diverso da quello voluto , ai sensi dell’art. 116 del codice penale, e, dall’altro, la si considera “una degenerazione della violenza usata ai pubblici ufficiali”; una insanabile contraddizione, questa, che ci pare efficacemente sintetizzata dal seguente passo:
"Nella specie, pur non dubitandosi che la strage fu una degenerazione della violenza usata ai pubblici ufficiali dai tumultuanti, è però da escludere che costoro potessero prevederla come ulteriore conseguenza della loro azione ed in effetti l’avessero preveduta, dal momento che in tali condizioni i primi esposti a sicuro grave pericolo sarebbero stati – come in effetti furono – essi stessi" pag.29).
Il processo, ereditando la parzialità e i vuoti istruttori, non fu in grado di dare un nome e un volto agli esecutori materiali della strage: ma si concluse con una sentenza sostanzialmente politica, illogica nella motivazione ma in linea con le aspettative di un potere che trovava nell’anticomunismo la sua principale ragion d’essere. E ciò che sedimentò nella convinzione collettiva canicattinese non fu l’assoluzione dal reato di strage dei componenti del comitato d’agitazione, ma il messaggio pedagogico che si era voluto affidare alla condanna.
Con l’attribuzione della responsabilità dell’eccidio agli anonimi partecipanti allo sciopero, i giudici escludevano in maniera definitiva ogni possibilità che altri soggetti e di tutt’altra matrice politica ne potessero essere i colpevoli. Per loro tutto si generò e si concluse nell’ambito del movimento della sinistra, che così veniva paradossalmente a includere vittime e responsabili. Anche questa sentenza, oggi, ci appare paradigmatica di una magistratura che in quegli anni “si muoveva sulla linea di una stretta aderenza alle scelte della classe politica dominante della quale recepiva le istanze e per la quale creava modelli di interpretazione del reale giuridico, linea per essa tradizionale e collaudata da un’esperienza secolare. E questo tanto più volentieri faceva in quanto la politica conservatrice dei governi dell’epoca corrispondeva a quelle che erano le sue inclinazioni più profonde, la sua cultura, la sua educazione giuridica, le abitudini prese nel ventennio fascista, in una parola la sua concezione del mondo.” ( Canosa-Federico, La magistrautra in Italia del 1945 a oggi, Bologna, 1974, pagg. 205-206).
Ai fatti di strage seguirono le elezioni politiche dell’aprile 1948 nelle quali a Canicattì, dove nelle amministrative di appena due anni prima la sinistra aveva riportato una vittoria travolgente, si registrò la sconfitta dei partiti della sinistra con un netto predominio delle forze moderate, che sostenevano gli interessi della classe agraria. Un’eccezione di rilievo a tale tendenza fu quella dell’on. Giovanni Guarino Amella, che a capo del suo partito, Democrazia del Lavoro, in quella campagna elettorale e mentre erano ancora in corso le retate poliziesche della caccia al comunista, si dissociò dai suoi alleati del Fronte dell’Uomo Qualunque e con improvvisa decisione si schierò con il Blocco del Popolo. Una scelta che, date le sue precedenti prese di posizione contro la sinistra di classe, a qualcuno sembrò un segno di senescenza, quando invece era un testamento di lucidità politica e di onestà umana che la città non seppe decifrare.






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