LUIGI FICARRA, Riflessioni in merito alla discussione sui fatti del 21 dicembre 1947 a Canicatti

Le tesi esposte recentemente da alcuni scrittori di Canicattì, in particolare da Diego Lodato e Gabriella Portalone, l’uno storico locale, l’altra professoressa universitaria, sono essenzialmente le seguenti.
Lodato: La manifestazione del 21.12.’47 dei braccianti, mezzadri e contadini poveri di Canicattì non fu originata dalle condizioni di disoccupazione e miseria delle masse popolari e dall’adesione cosciente al grande movimento di massa sviluppatosi allora in tutta l’isola, bensì - egli dice, sposando acriticamente in toto la posizione di un interessato e culturalmente limitato anticomunista di quel tempo - dal preordinato disegno di fare (sadicamente) violenza, di “far scorrere sangue”.

Portalone: sostiene in pratica la stessa tesi, dicendo che i lavoratori non scesero in lotta contro gli agrari, aderendo alla manifestazione regionale con l’obbiettivo di una loro emancipazione economica-sociale-culturale, per capovolgere cioè la loro secolare condizione di subordinazione e di miseria, ma furono essenzialmente strumentalizzati solo al fine di un tentativo di rivolta, contro il potere politico, da parte dei socialcomunisti. E’ in fondo quel che da prima aveva affermato uno storico locale, anch’egli di destra (Angelo La Vecchia), quando scriveva che il 21 dicembre 1947 “la piazza era dominata dalle sinistre che preludevano alla conquista del potere….. all’avvento di Stalin”.
La Portalone, pur riconoscendo in un primo momento che vi era allora a Canicattì un “proletariato … con una forte coscienza di classe, che aveva inasprito (con le lotte) i contrasti con una borghesia (agraria) timorosa che dopo il fascismo potesse resuscitare il fantasma della rivoluzione bolscevica”, riduce poi contraddittoriamente, con capovolgimento ideologico, la grande manifestazione di massa del 21 dicembre ‘47 all’«inizio di una contrapposizione frontale tra comunisti e Chiesa».
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- Torna in fondo il vecchio adagio reazionario secondo il quale i lavoratori non possono avere, come tali, un’elevata coscienza politica e se scendono in lotta lo fanno perché strumentalizzati da altri. Basti pensare come il potere politico (Crispi), per combattere e tentare di distruggere nell’opinione degli italiani e soprattutto della piccola borghesia isolana, che pur ne era attratta, il grande movimento di massa dei Fasci dei lavoratori siciliani, ricorse finanche al falso, sostenendo la tesi che, non le condizioni economico-sociali erano alla base del movimento di lotta, ma un complotto rivoluzionario di vertice organizzato pure in collusione con una potenza straniera. (Il famoso falso storico del patto di Bisacquino fra i dirigenti dei Fasci e rappresentanti della Francia). E per fare solo un altro esempio, è utile riandare con la memoria al grandioso movimento di lotta dei contadini tedeschi nella terza decade del secolo XVI, movimento originato dalle condizioni di miseria ed abbrutimento allora esistenti, e leggere i discorsi contro di esso svolti da Martin Lutero, alleato con i principi ed il potere costituito, il quale rappresentava i contadini come preda del demonio ……; demonio che nel tempo di cui ci stiamo occupando si dirà, da parte degli ecclesiastici cattolici, essersi incarnato nei “truci” comunisti e nei socialisti.
- Per comprendere la situazione politica generale ed in particolare le condizioni economico-sociali delle masse lavoratrici a Canicattì e nell’isola in quel tempo, condizioni che costituivano il fondamento materiale dell’agitazione, vanno tenuti presenti alcuni punti.
• Secondo studi compiuti all’epoca dall’INEA, nel ’46-’47 duecentoottantadue (282) ricchi proprietari possedevano il 10,6% della terra (superficie agraria e forestale) e solo circa mille famiglie di redditieri avevano in mano circa un terzo di tutta la terra.
• C’erano allora in Sicilia 257.073 lavoratori agricoli (braccianti) che non avevano neppure un lembo di terra e costituivano il 38,8% della forza lavoro attiva dedita all’agricoltura; e c’era nel contempo una massa di contadini poveri, di numero pari ai braccianti (un altro 38% circa della popolazione agricola attiva), che possedevano piccolissimi appezzamenti di terreno, sufficienti alla bisogna di una persona non certo di una famiglia. (Nella Sicilia occidentale c’erano zone in cui la concentrazione della proprietà fondiaria arrivava anche al 90%; - e a Canicattì, come è noto, poche famiglie di ricchi agrari, i Gangitano, Caramazza, Lombardo, Cucurullo, etc., possedevano, ognuna, parecchi feudi).
• Dopo la seconda guerra mondiale, la Sicilia ha un’emigrazione tale da porla, tra le regioni italiane, come seconda subito appresso alla Calabria. Vi furono circa 21.000 emigrati nel triennio 1946-‘48 per paesi transoceanici, cifra che poi viene quasi raggiunta nel solo 1950. Ed alla quale va sommata la numerosa e vasta emigrazione per il Nord Italia ed il resto d’Europa. Da Canicattì tantissimi lavoratori (braccianti e contadini poveri, i più intraprendenti, fra i 15 ed i 40 anni), con la valigia di cartone, chiusa con uno spago, emigrarono in quegli anni, e lo fecero costretti dalla disoccupazione e dalla miseria, non certo per diporto, come potrebbe sostenere qualcuno che ho più sopra citato. – Altro che invenzione di un’inesistente miseria!
• C’era la memoria storica, vivissima a Canicattì, del movimento dei Fasci dei lavoratori siciliani, cui partecipò da giovane pure Guarino Amella, ma ci fu anche un fatto di primaria ed eclatante importanza, mai accaduto nella storia passata della Sicilia, nella quale per ben circa sette secoli aveva dominato l’ordinamento feudale: per la prima volta la legge era dalla parte dei lavoratori ed essi infatti chiedevano l’applicazione del decreto Gullo n. 311 del 19.10.’44 che stabiliva la ripartizione sino al 60% del prodotto per i mezzadri ed il resto ai concedenti. Come hanno ben osservato alcuni storici, si rovesciarono le parti e furono ora i ricchi agrari, assistiti dai loro grossi e cavillosi avvocati, a porre in discussione la sovranità della legge (vs. sul punto Nino Sorgi, “Lotte contadine in Sicilia”, in “Il Ponte, maggio 1959); e con l’intervento diretto della mafia, con cui essi in quel tempo apertamente colludevano, usarono ogni mezzo per tentare di non rispettarla. (Emblematici furono a Canicattì i due ripetuti attentati mafiosi al grande dirigente sindacale Antonio Mannarà fra la fine del ’46 e l’inizio del ’47 e numerose furono le prevaricazioni, le violenze e le minacce esercitate dalla criminale organizzazione «cosa nostra» pure nei confronti di singoli lavoratori; sono ancora vive nella memoria popolare le violenze esercitate dalla mafia in quel periodo, anche con le mitragliatrici, al momento della spartizione del prodotto, in moltissimi feudi, fra i quali qui ricordiamo solo quelli di Sparacogna e Mangiaricotta di Ravanusa, e quello del barone più ricco di Petralia Soprana, dove non si divideva “50 e 50” secondo i patti di Corleone del 1893, ma come prima: 1/3 al mezzadro e 2/3 al proprietario, oltre gli oneri di origine feudale, e solo dopo molte dure lotte, nel ’47, i mezzadri riuscirono a dividere secondo la legge Gullo). ---------- Si calcola che in Sicilia circa il 60% dei 100.000 e più coloni parziari esistenti in quegli anni presero parte alle vertenze sindacali per l’applicazione del decreto Gullo n. 311 del ’44. Vasta fu pure la lotta dei fittavoli, circa 80.000, per l’applicazione della riduzione del 30% del canone disposta da un altro decreto dello stesso Gullo. Ed interessò mezza Sicilia la lotta, sviluppatasi fra il ’45 ed il ’47 per l’assegnazione delle terre incolte e mal coltivate, ai sensi del decreto Gullo n. 279 del ’44; lotta nella quale scesero in prima fila i braccianti ed i contadini poveri, seguiti da gran parte della popolazione e specie con la partecipazione diretta di operai dell’industria edile e mineraria.
Ebbene, la partecipazione a queste lotte fece crescere una coscienza politica e sindacale nuova fra i lavoratori, che si ponevano ora come soggetti e non più mero oggetto d’uso del padrone, secondo la rivoluzionaria formulazione data da Hegel nella “Fenomenologia dello spirito”, là ove tratta dell’opposizione «servo-padrone». A Canicattì, dove c’era una estesa e capillare organizzazione sindacale, la partecipazione alle suddette lotte investì l’intero paese; ed essendovi pure una forte borghesia agraria, capace anche di investimenti notevoli nel settore delle Banche, dura fu la reazione, con l’appoggio aperto e dichiarato della mafia, non tollerandosi, per la difesa dei propri interessi economici di classe e per la conservazione del correlativo dominio, che i lavoratori, un tempo servilmente sottomessi, alzassero la testa e facessero valere con giusto orgoglio la loro conquistata autonomia. (Nel bel libro di Giuliana Saladino “Terra di rapina”, si ricorda quanto ebbe a dire un mafioso in quel tempo nell’agrigentino, dove la stessa Saladino operò politicamente : “La legge! La legge! Vi siete fottuti la testa con questa legge. La legge qua l’abbiamo fatta noi, da che mondo e mondo”. Erano invero terrorizzati, assieme ai loro mandanti, gli agrari, che la situazione si ribaltasse).
A Portella delle Ginestre la banda Giuliano e la mafia, con il beneplacito del ministro degli Interni dell’epoca, come più volte ebbe a testimoniare Li Causi (e come sostengono Sandro Provvisionato, in Misteri d'Italia, Laterza 1994, e Carlo Ruta, nel libro Il binomio Giuliano Scelba, Rubbettino 1995), compirono il 1° maggio del 1947, poco dopo la vittoria delle sinistre all’Assemblea regionale, una strage, uccidendo undici manifestanti, compresi due bambini. E secondo quanto sostenuto dallo storico Nicola Tranfaglia e da Casarrubea, sulla base di accurate e documentate ricerche, detta strage è da attribuire, oltre che alle dirette pressioni fatte sulla mafia dai latifondisti siciliani, anche all’intervento dei fascisti della X Mas di Iunio Valerio Borghese, contattati dai servizi segreti USA, i quali erano preoccupati dell'avanzata comunista e socialista. (Illuminante è al riguardo il messaggio inviato il 1° maggio 1947 dal segretario di Stato Usa all’ambasciatore a Roma, in cui, fra l’altro, egli si dice molto preoccupato della “vittoria elettorale comunista in Sicilia”).
Ebbene, proprio a Canicattì, dove c’era e c’è una potente organizzazione criminale mafiosa, l’intervento della mafia contro il movimento sindacale, specie nel ’47 ed in particolare in occasione della manifestazione del 21 dicembre, fu pesante e manifesto. (Ne parla espressamente Angelo La Vecchia, dicendo che tutta la forza della mafia era quel giorno all’interno del circolo degli agrari, armata e pronta ad intervenire; ed indirettamente ne fa fede anche l’attestazione fatta in merito dall’arciprete Vincenzo Restivo). Il saggio di Vaiana sia su questo punto che su quello relativo all’intervento certo, anche armato, dei fascisti dell’Uomo Qualunque contro i lavoratori, è molto preciso e puntuale e non mi risulta sia stato smentito con argomentazioni e dati di fatto in contrario.
Non c’è dubbio che non può ritenersi una visita turistica e-o amorosa quella compiuta a Canicattì, ospite del barone La Lomia, da un capo indiscusso della mafia dell’epoca, Lucky Luciano, fra aprile e giugno del ’47. Egli, invero, “liberato” per ricompensa dal carcere (vs. sul punto Saverio Lodato, “Sicilia in prima pagina”), era stato mandato dalle autorità Usa in Sicilia nel 1945-46 per organizzare un intervento politico di tutta la mafia. Intervento che a Canicattì, va ripetuto, fu molto pesante, causando anche vittime fra i lavoratori.
Va a questo punto ricordato che dal novembre 1946 al 18 aprile 1948 il terrorismo mafioso anticontadino si manifestò con un ritmo incalzante, con una media di due morti ammazzati al mese; e si sviluppò senza ostacoli, grazie ad un’operosa e vigile inefficienza delle forze dell’ordine e della magistratura del tempo. I grandi agrari ed i gabelloti mafiosi si muovevano invero con assoluta disinvoltura e, grazie al clima politico interno ed internazionale, non ci furono condanne contro gli esecutori ed i mandanti degli efferati numerosi assassinii di sindacalisti e contadini - (vs. la prefazione di Gian Carlo Caselli a “Le foibe della mafia” di Ursetta, 2005).
- Ultima notazione a proposito della manifestazione del 21 dicembre 1947. Le giornate di lotta organizzate in tutta la regione, compresa quindi quella di Canicattì, avevano come obiettivo la realizzazione e l’applicazione dell’imponibile di mano d’opera. Non era una rivendicazione bolscevica, come sembrano pensare gli storici più sopra citati, ma l’attuazione di quanto sostenuto da Alcide De Gasperi con la sua proposta di legge del 1946, che imponeva ai latifondisti di assumere mano d’opera disoccupata in proporzione all’estensione dei loro possedimenti.
- Osservo infine che leggendo quanto scrive Diego Lodato in merito alla difesa svolta da Lelio Basso, nel 1952 al processo di Agrigento, per Mannarà Antonio e gli altri imputati, viene spontaneo pensare che non l’abbia ponderata con attenzione. Avrebbe altrimenti conosciuto come Basso distrugge con argomenti logici inconfutabili il tipo di argomentazioni apportate da Diego Cigna, che egli, Lodato, ha ritenuto di dover invece fare proprie.
Circa detta difesa, che invito tutti a leggere e studiare con diligenza e cura, non aggiungo altro a quanto riportato nel saggio di Salvatore Vaiana. Mi limito qui a richiamare l’attenzione sul punto relativo all’inquietante assoluzione in sede istruttoria dell’imputato reo confesso Carusotto, il quale ebbe a dichiarare con chiarezza al magistrato di avere sparato il 21 dicembre contro i lavoratori.

Padova 13 gennaio 2008

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