DOMENICO TURCO, Prefazione di "La memoria e l'essenza" di M. Lavinia Napoli



Questa sorprendente raccolta della giovanissima Maria Lavinia Napoli conferma l’impressione di una poesia molto originale, vigorosa e concreta, polarizzata intorno a due concetti essenziali della vita e dell’arte quali sono la memoria e l’assenza.
Centrale nella poetica di Maria Lavinia Napoli è la dimensione del tempo, che sintetizza in un’unica parola la dialettica tra la memoria e l’assenza, quest’ultima intesa anche come oblio di sé, della propria condizione di individuo immerso nel quotidiano ma teso a più alte conquiste di pensiero.

Espressione di poesia filosofica nel senso più profondo e spirituale del termine, La memoria e l’assenza è una silloge di ampio respiro, che nell’agilità del verso lascia tuttavia trapelare una sofferta visione del mondo e delle sue contraddizioni.
La raccolta è permeata del sentimento tragico della vita discusso da Unamuno nello scorso secolo, ma che in realtà affonda le sue radici già nel Vecchio Testamento, in Omero e negli altri classici greci e latini.
Il riferimento all’epos omerico è chiaramente espresso nella prima lirica della raccolta, Cantami, o Diva,ironica allusione alla famosa traduzione neoclassica dell’Iliade omerica svolta da Vincenzo Monti. Questa personale invocazione alla Musa risente di un atteggiamento irriverente ma non troppo, in cui la dea appare quale spirito tutelare del dolore e del disagio della poetessa, come emerge da versi particolarmente illuminanti:
Cantami, o Diva, delirio immoto,
di tormenti memori d’assenze.
 
I tormenti dell’anima sembrano alimentati dalla memoria delle “assenze” disseminate come tracce di verità, di sofferta verità, lungo il percorso della vita.
Sin dalla lirica di apertura il soffrire affiora nelle sue più varie articolazioni, quale componente essenziale richiesta al sensibile studioso che vuole leggere l’anima dell’Autrice, e a cui quest’ultima chiede ironicamente “Berrai il mio soffrire?”.
La domanda-provocazione si chiude con un’osservazione dell’io lirico, che, con una grande consapevolezza critica, afferma incisivamente Filtrerai i miei colori/e diverranno altro! Come dire, che le sensazioni e le emozioni della poetessa saranno necessariamente soggette a quel fraintendimento creativo, a quel mis-reading che l’Ermeneutica e la corrente filosofica del Testualismo considerano fondamentali ai fini della costruzione e della decostruzione, i due momenti-chiave della letteratura come e in quanto esperienza rivelativa.
Salta comunque subito agli occhi il fatto che Maria Lavinia Napoli non si limiti ad esprimere un messaggio confessionale o solipsistico, che valga soltanto per sé stessa, ma la sua opera poetica riflette una preoccupazione partecipe per il destino corale di tutta l’umanità, di tutti i Mortali, non a caso titolo di una delle poesie a più alto grado di emozionalità della raccolta:
Triste sentire
il buio avanzare
e veder foglie cadere
come sogni
di inutili traguardi
per chi ha la morte addosso.
Alla luce degli aspetti profondamente tragici dell’esistenza, l’autrice riprende il tema biblico della vanitas vanitatum, della vanità di tutte le cose terrene. Non c’è nessuna speranza escatologica, nessuno spiraglio per una possibile via d’uscita dal mondo dei vivi “ […) se riposo è sgomento/e la pace penombra.” A conclusione e chiosa di queste amare considerazioni Maria Lavinia lancia un grido accorato e dolente sulla precarietà e la fugacità della vita:
Morituri
dai talenti sprecati,
tra errori e certezze
poco tempo
per capire.
Canto di grande potenza evocativa e visionaria, Notte (delirio) ha tutta l’aria di una preghiera laica e pagana rivolta alla Notte stessa per propiziarne i buoni auspici. In questo senso la composizione ricorda l’Ode alla Notte di Fernando Pessoa, per quanto la giovane poetessa sviluppi lo spunto creativo in maniera estremamente autonoma, con accenti e timbri inconfondibili:
Notte, che culli
la mia solitudine,
mia unica compagna,
e anestetizzi uomini e dei,
giungi, o notte!
La notte è qui colta nel suo aspetto di “anestetico” capace di regalare l’oblio a uomini e dei, concetto ribadito nella seconda strofa:
Coprimi
col tuo manto superbo di stelle
e regalami l’oblio.
Nascondimi nell’ombra
dove nessuna prigionia ghermisce
il mio esitante riscatto.
Sorprendimi
Con le tue chimere.
Rifuggendo da ogni retorica, anche da questi pochi frammenti si evince chiaramente un interessante connubio di rigore e sintesi, che costituisce la caratteristica principale della poesia di Maria Lavinia. Inoltre non si riscontra la benché minima traccia di quelle incrostature decorative che figurano spesso nelle opere dei poeti più giovani. L’autrice siciliana propone una poesia di pensiero, lucida, disarmante, vigile, nella quale il discorso lirico rinuncia talvolta all’estetica del bel canto per accentuare le istanze di un’etica della precarietà di derivazione esistenzialista.
Diverse le ascendenze letterarie che si rivelano già ad una prima lettura, con la presenza costante di due grandissimi poeti e asceti del razionalismo come Leopardi e Montale, che si caratterizzano per aver concepito una scrittura votata e vocata alla riflessione, agli aspetti speculativi. Da Leopardi, in particolare, Maria Lavinia Napoli eredita un approccio all’esistenza che poco o nulla concede al dato consolatorio, al facile ottimismo di chi considera il nostro il migliore dei mondi possibili.
Consapevole del fatto che la vita stessa rinvia al momento aurorale dell’essere-gettati, per citare uno dei tasselli speculativi del verbo heideggeriano, come l’amatissimo Montale de La casa dei doganieri  inTempesta la nostra poetessa si chiede: “il varco è qui?”. La domanda non è fine a sé stessa, perché rientra in un disegno più vasto, additando a quell’interrogazione fondamentale sul senso della vita che si palesa nel suo continuo oscillare tra memoria e assenza, binomio analogo ma in nessun caso identico almemory and desire dell’incipit della Terra desolata di T. S. Eliot.
In effetti l’enfasi posta sull’assenza è indice di una dirompente tensione nichilistica, di un pensiero debole che comunque si riscatta additando quale varco la riscoperta dell’intuizione dei tragici greci, relativa all’equazione conoscenza=dolore.
“Solo chi soffre sa”, afferma Eschilo nell’Agamennone, un’affermazione che sembra di poter ricavare dalla lettura tutt’altro che facile o banale de LA MEMORIA E L’ASSENZA.
La silloge è una piacevole testimonianza dello straordinario talento artistico di Maria Lavinia Napoli, poetessa di luminoso avvenire, anche in considerazione della giovanissima età, che positivamente stride con la limpida, adamantina purezza di un messaggio poetico, filosofico ed esistenziale di grande maturità.
Domenico Turco

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