Nel febbraio 1960 cadde in
Sicilia nell’ignominia della corruzione il governo Milazzo, un grosso agrario
di Caltagirone, un governo che rappresentò una delle pagine più arretrate e
regressive della storia del M.O. italiano. (L’ignominioso fatto di corruzione fu il c.d. caso ‘Santalco’, in cui fu implicato un alto
dirigente del PCI dell’epoca, oggi riformista dichiarato, lo stesso che nel
1983, al XVI congresso del PCI, definì un “povero
cretino moralista” Diego Novelli, allora sindaco di Torino, già attaccato
da Craxi per le denunce che aveva fatto di alcuni casi di corruzione di
consiglieri comunali).
Quale fosse in quel tempo la
tragica situazione economica e sociale della Sicilia occidentale è noto. I capitali
si erano spostati dall’agricoltura all’industria dell’edilizia, in particolare
nel settore degli appalti dei lavori pubblici, dove, usufruendo di notevoli
agevolazioni-regalie regionali, venivano
realizzati alti profitti. Pesante era la presenza della mafia anche in
questo specifico settore e, quindi, ancor più elevato lo sfruttamento della
forza lavoro. I rapporti sociali in agricoltura erano mutati per il superamento
del latifondo e lo sviluppo, in alcune zone, del capitalismo nelle campagne; ma
grave era rimasta la condizione di supersfruttamento della forza lavoro
bracciantile e alcun reale beneficio apportò all’occupazione la riforma agraria
del 1950 realizzata e gestita, sotto forma di ‘rivoluzione passiva’, dalla classe dominante. Infatti la conseguente
trasformazione in senso capitalistico dell’agricoltura, generò, come spiega
Renda, oltre duecentomila esuberi che diedero origine a una nuova grande ondata
migratoria. Il settore minerario era in crisi, vittima di uno sfruttamento secolare
da parte della rendita parassitaria del ceto proprietario nobiliare. - Il fatto
nuovo, a partire dall’ottobre ’53, col ritrovamento dei primi giacimenti
petroliferi a Ragusa da parte della Gulf, fu la calata in Sicilia di grossi
gruppi capitalistici, quali la Montecatini, l’Edison, la Rasiom-Esso, la Snia
Viscosa, e poi la grande industria capitalistica di Stato, l’Eni.
Macaluso, allora dirigente
di primo piano del PCI in Sicilia, fu l’animatore della c.d. operazione
Milazzo, che dall’ottobre ’58 al febbraio ‘60 portò alla costituzione - attorno
a questo dirigente, democristiano da sempre, ed al nuovo raggruppamento da Egli
formato per scissione dalla DC, l’Unione Siciliana Cristiano Sociale - di una
maggioranza formata da comunisti, socialisti, monarchici, fascisti, liberali,
socialdemocratici e repubblicani, in mera funzione anti D.C. - E Macaluso ha
nel tempo continuato a rappresentare detta operazione come una strategia quasi
rivoluzionaria, non comprendendo di essere stato usato come parte
sostanzialmente passiva di una scelta strategica dell’avversario di classe,
quella pensata ed operata dalla Sicindustria di Mimì La Cavera, poi divenuto presidente
onorario della Confindustria siciliana e successivamente sostenitore, non a
caso, del governo reazionario di Lombardo. Quel La Cavera, che nel suo
articolo, pubblicato su un’intera pagina de “L'Ora” di Palermo del 27 dicembre 1959, a commento dell'operazione “Milazzo”,
scriveva che “il fatto rivoluzionario della situazione siciliana è
che una parte delle classi "agricole" del patriziato (i
discendenti del Gattopardo) vuole essere classe dirigente (a differenza,
spiega, di quanto fece nel 1860), ..alleandosi a coloro (PCI siciliano) che
"promuovono" lo sviluppo di una classe imprenditoriale moderna ….”;
ed in questa alleanza egli chiaramente assegnava al M.O. una posizione di
supporto allo sviluppo capitalistico del sud e, nella specie, della Sicilia.
Parlando poi della forte presenza comunista in Italia e nel mezzogiorno in
particolare, diceva che per combattere questa situazione politica occorreva “promuovere
politiche di espansione … economica, che spezzando i privilegi da un lato
(i c.d. privilegi dei monopoli), e mantenendo la pace sociale dall'altro con
una politica di lavoro aperta e progressiva (dare qualche soldo in più ai
braccianti - egli diceva), tolgano di mano ai comunisti le ragioni della (loro)
forza”. “Occorre far sì -
concludeva La Cavera nel suo articolo-manifesto del 1959 – che l'Italia non sia più il paese dell'occidente, dove …. i
comunisti potrebbero vedersi aperta la via per giungere al potere per vie
legali”. Ed aggiungeva che “La Sicilia indica una via per tutta la
nazione : la via del giovane occidente capitalistico …. nella più pura
linea della tradizione liberista italiana, quella che vide unita l'agricoltura
meridionale (gli agrari) all'industria libera del nord (i
capitalisti)”. La Cavera operava, nell'interesse della borghesia, il rovesciamento
totale delle tesi rivoluzionarie svolte da Gramsci ne “La questione meridionale”. Ed il PCI siciliano, diretto allora da
Macaluso, stabilendo con lui buoni ed amichevoli rapporti, mantenuti peraltro
nel tempo, non se ne accorse, o più semplicemente non capì e, peggio, scelse di
non approfondire. – Il Comitato centrale del PCI nella seduta del 2 dicembre 1958
diede un avallo alla scelta fatta in Sicilia col governo Milazzo: Amendola, capo della tendenza di destra,
disse, come relatore, che detta scelta serviva ad impedire il consolidarsi del
regime di monopolio politico della DC di Fanfani. Ed a proposito dell’alleanza
stabilitasi a Palermo anche con monarchici, fascisti e liberali, così precisò: “una
cosa è realizzare un accordo ‘provvisorio’
coi partiti di destra per difendere l’autonomia o
per impedire la chiusura di una industria, altra cosa è realizzarlo, come fa
abitualmente la DC, per attuare una politica di conservazione sociale e
politica”. Non
tutti i componenti del C.C. furono consenzienti con l’analisi di Amendola, la
quale ovviamente non eliminava la coltre di ambiguità che avvolgeva la eterogenea
maggioranza milazziana, che non era, come nota lo storico Renda, <<un accordo ’provvisorio’ coi partiti di destra >>, ma una solida alleanza
destinata a durare nel tempo, e appariva come una contraddizione oggettiva
della strategia comunista.
Sul piano politico sociale
va notato che Macaluso nella seduta del 30 ottobre 1958 all’assemblea regionale
siciliana, proponendo “un programma
minimo e amministrativo” disse, quasi a rassicurare le forze dominanti, che
<<non bisogna fare nuove grandi leggi (cioè nuove riforme), bisogna applicare le leggi che ci sono>>. E, invero, l’operazione Milazzo, in cui forte e
decisiva era la presenza della destra, e, quindi, degli agrari, e vedeva la
sinistra alleata con essa, frenò al massimo lo sviluppo della lotta di classe nelle
campagne, nell’industria dell’edilizia e nelle miniere; né avrebbe potuto
essere diversamente in una situazione che vedeva, come scrive Renda, la “Cgil convergere coi padroni della
Siciindustria”.
Per comprendere quanto
scriviamo, basti pensare che il governo Milazzo emanò nella primavera del ’59 una legge –
detta piano quinquennale di rinascita - che richiedeva, da parte dei titolari delle
miniere di zolfo, la presentazione di un progetto quinquennale di
ristrutturazione delle zolfare, le cui spese - si diceva - sarebbero state, solo
inizialmente, a totale carico della Regione. La legge, ben congegnata,
prevedeva che il finanziamento, tramite il Banco di Sicilia, sarebbe stato
erogato man mano che fossero stati approvati da commissione apposita, gli stati
di avanzamento, molti dei quali furono iniziali e solo apparenti. Le somme
erogate dalla Regione avrebbero dovuto essere teoricamente restituite alla stessa
alla fine del quinto anno, una volta avviata la ipotizzata ripresa
dell’attività economica zolfifera. Ma al termine dei cinque anni
previsti dal Piano la quasi totalità
dei padroni delle miniere risultò inadempiente, e pertanto essi vennero a godere in sostanza di un lauto
finanziamento, che Alfio Caruso indica nella enorme somma di 12 miliardi di
lire dell’epoca. Fu in tal modo
realizzato in sostanza il salvataggio delle famiglie nobiliari padrone delle
miniere, prefigurandosi, dopo il loro lauto pasto, il passaggio di queste ultime
sotto la mano pubblica: come avvenne
circa tre anni dopo con a creazione del discutibile Ente Minerario Siciliano,
la cui presidenza venne affidata a Calogero Volpe, amico, come noto, del
mafioso Genco Russo. Va pure detto che con la suddetta legge - che secondo
alcuni ebbe come ispiratore di Milazzo il famoso avvocato Guarrasi, noto come
il consigliere della borghesia mafiosa siciliana -, venne data una parziale
copertura politica alla sostanziale operazione di salvataggio dei padroni delle
miniere, stabilendosi - cosa indubbiamente positiva - che gli esercenti dovevano
impegnarsi a mantenere occupati nelle
miniere un certo numero di operai. Abbiamo parlato di copertura, perché nel
giro di circa 10 anni si ebbe la sostanziale liquidazione dell’intero settore
zolfifero siciliano, causa la passata politica di rapina e di bestiale
sfruttamento della forza lavoro, senza alcuna innovazione tecnologica, compiuta
per oltre un secolo dai parassiti signori proprietari delle miniere. Il commento più
pertinente sulla succitata operazione compiuta dal governo Milazzo lo fece Sciascia,
dicendo: “nulla capiremo della mafia, finché non metteremo in luce gli aspetti di
questa vicenda”.
Ci furono in realtà rapporti fra milazzismo e mafia,
come sottolinea lo storico Umberto Santino, dicendo che l'assessorato diretto
dal monarchico Pivetti era frequentato dal capomafia Paolino Bontade e dai suoi
amici. Lo stesso Renda, allora deputato regionale, non nega nella sua “Storia della Sicilia” “l'incidenza della mafia nel secondo e nel
terzo governo Milazzo”. Il prof. Giuseppe Marino, che fa il discorso
storico più serio e di ampio respiro, dice che, sì, vennero rimossi i mafiosi
Vanni Sacco e Genco Russo dal controllo dei due principali consorzi di bonifica
- (assessore all'agricoltura - egli ricorda - era nel primo governo Milazzo il
missino Grammatico) -, ma, anche se il fatto fu percepito come importante,
rimase - egli scrive - marginale, perché trattavasi “dell'abbattimento di realtà residuali, della mafia di campagna”. –
“I governi Milazzo - scrive ancora
Marino - non si avvidero del nuovo corso
mafioso a preminente caratterizzazione urbana. - .... Anzi lo favorirono e vi
parteciparono” E spiega pure che “i
potenti cugini Salvo appoggiarono il milazzismo”. Marino sottolinea altresì
che non tutti i comunisti concordavano con Macaluso e la sua tattica
trasformista, realizzata nell'alveo del peggiore “sicilianismo”; e ricorda che
Mario Ovazza, capogruppo allora del PCI all'assemblea regionale, nei suoi
"appunti inediti" del 1993, ebbe a scrivere che “fu costretto a partecipare ad un incredibile
Comitato, presieduto dallo stesso Milazzo, il cui compito ufficiale era quello
di appagare le crescenti richieste per "inserire a posti di sottogoverno
elementi collegati con la maggioranza milazziana". “Fui felice - dice sempre Ovazza - quando, (per le resistenze manifestate),
fui sostituito da Cortese”. Il
milazzismo in sostanza si svelò essere, nel suo insieme, una grande operazione
trasformista, nell'alveo del più becero e reazionario "sicilianismo";
e fu il bacino di coltura di quella politica di compromessi al più basso
livello e di sostanziale compartecipazione alla gestione del potere borghese sotto
la copertura di un’opposizione di facciata, contro cui poi combatté con tutte
le sue forze il compagno Pio La Torre
fino al sacrificio della vita, come ben scrive Adriana Laudani nel libro di
Sorrentino e Mondani “Chi uccise Pio La
Torre”.
Va detto però dire che la scelta di Macaluso non fu un
“errore” del PCI siciliano ma fu figlia diretta
della teoria del “fronte antimonopolista” in coerenza alla concezione dello
Stato, quale ”Stato dei monopoli”, e non, invece, quale era ed è, espressione e
mediazione dell’interesse generale capitalistico. Teoria, questa dello ”Stato
dei monopoli”, propria della III internazionale. Ed è per questo motivo che Togliatti, come
ricorda Marino in “Storia della mafia”, in coerente applicazione di detta
teoria, in un convegno tenutosi a Palermo a cavallo dell’operazione Milazzo,
diede a questa un fondamento teorico-politico, perché, si disse, veniva così
costituito un fronte contro la rapina della Sicilia da parte dei monopoli, da
parte dello Stato dei monopoli.
Espressione piena di tale
linea, sicilianista e reazionaria, è stato in anni a noi molto vicini il governo
Lombardo, appoggiato dal PD siciliano. Quel Lombardo, che ebbe come consulente
il vate degli industriali La Cavera e che fu prima alleato del suo sodale
Cuffaro.
Oggi, di fronte al declino
storico del capitalismo europeo, che in Italia si traduce in una pesante
stagnazione e regressione, c’è un Sud non più da tempo
funzionale neppure allo sviluppo capitalistico del paese, con una forza lavoro
non più competitiva rispetto a quella degli africani e dei cittadini dell’est
Europa. In esso la condizione giovanile, che raggiunge punto di disoccupazione
oltre il 50%, è tragica; ed il destino di tutto il territorio meridionale è di
trasformarsi nel recinto di quella che Marx chiamava ”sovrappopolazione stagnante”.
Al massimo si coglie in questa situazione la
disfatta del M.O., i risultati di quella politica del vecchio PCI di bassa compartecipazione in Sicilia
e altrove, specie nel Sud, alla gestione del potere borghese. Politica che oggi
si manifesta tramite un suo vecchio rappresentante storico, Napolitano, che
plaude alla bestia trionfante del capitalismo alla Marchionne e al suo sodale,
Renzi, che sta portando a termine l’opera di Berlusconi e Monti di distruzione
delle difese del M.O., delle sue casematte:
Statuto dei Lavoratori, c.c.n.l., e libere rappresentanze sui luoghi di lavoro.
La strada da proporre alle
nuove generazioni non è certo la rivolta disperata, come quelle di “Alcara Li
Fusi” e di “Bronte” del 1860 e-o come quella indistinta di Licata del 5 luglio
1960, ma quella di un ripensamento profondo delle cause che hanno portato a
questa disfatta politica e che faccia quindi i conti, anche e soprattutto a
livello teorico, col passato riformista del M. O. Un ripensamento che recuperi
in particolare in Sicilia la memoria storica del movimento dei Fasci dei
Lavoratori Siciliani del 1893 - 94; delle lotte per l’occupazione delle terre
del primo dopoguerra e quelle del ‘44 - ’50. Movimento, quest’ultimo, politicamente
sconfitto dalla riforma agraria del dicembre 1950, definita dalla sinistra di
allora una <<controriforma>>, il cui progetto di legge, è
bene ricordarlo, fu elaborato dall’agrario on. Milazzo. Una vera controriforma,
il cui attore principale fu il mercato, consentendosi e comunque non
impedendosi che i grandi proprietari, anticipando l’applicazione della legge,
vendessero direttamente a terzi, contadini compresi, le superfici migliori oltre
il limite consentito di ben duecento ettari e realizzarono in tal modo, dice
Renda, circa trenta miliardi: una
vera manna, una sorta di piano Marshall che mise a disposizione della borghesia
agraria ingenti capitali, destinati in parte alla trasformazione capitalistica
delle sue terre.
Forti dell'insegnamento
svolto da Gramsci ne “La questione
meridionale”, molti dirigenti del PCI di allora giudicarono negativamente
detta legge, che segnò la sconfitta definitiva della lotta di classe nelle
campagne siciliane, specie del movimento cooperativo. Oltre allo storico
Giuseppe Marino, ed a Umberto Santino del centro Peppino Impastato, la grande
scrittrice e giornalista de “L'Ora”, Giulia Saladino, in “Terra di rapina”, raccontò magistralmente come interi direttivi
delle sezioni del PCI dell'isola, vista la fine miserrima delle lotte che
avevano condotto, preferirono emigrare all'estero. Anche Francesco Renda parla
molto criticamente di questa controriforma agraria, che costituì una chiara
opera di “rivoluzione passiva”, nel
senso gramsciano del termine.
Luigi Ficarra
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